«Chiamata improvvisa e imprevista e per me imprevedibile. Per niente attesa».
Così inizia la piacevolissima conversazione con S.E. Mons. Vito Piccinonna, che sabato 21 gennaio 2023 alle ore 10.30, presso la Basilica Cattedrale di Santa Maria in Rieti, sarà ordinato vescovo di quella Diocesi, per la quale era stato eletto lo scorso 18 novembre.
Fratello Vescovo, don Vito. Per l’età: ha 45 anni ed è il più giovane vescovo in una Diocesi italiana. Per la vicinanza: nato a Palombaio, Bitonto (BA), frutto della nostra terra, formatosi nel Seminario Regionale di Molfetta. Per l’amicizia: tanti di noi lo conoscono da tempo, è venuto più volte in Diocesi a parlare ai giovani o per l’Azione Cattolica o per la Caritas. Per la freschezza: la nomina non ha scalfito il suo modo di essere, il suo simpatico slang tipicamente bitontino, il suo fare semplice e immediato, nonostante le grosse responsabilità pastorali che ha avuto e che avrà.
«Mi hanno sempre insegnato che quando un vescovo chiede, si dice sempre di sì, ancor di più perché è il Vescovo di Roma che me l’ha chiesto (ricordiamo che Papa Francesco lo chiamò al telefono nel luglio 2020, ndr). Ho detto di sì, ma non perché mi senta all’altezza. Vedo un disegno più grande che mi abbraccia, mi conduce, mi guida. Un qualcosa che non ti sei scelto. Non hai fatto nulla per arrivarci, per cui lo avverti come dono. Molti in questo periodo mi hanno detto “meritatissima, la tua nomina”. è invece proprio esattamente il contrario. Anche nella liturgia di ordinazione c’è questa espressione molto bella: il Signore ci chiama senza alcun merito e questo fa risplendere ancora di più la logica del dono. Per cui alla grazia penso che bisogna rispondere con gratitudine e questa gratitudine desidero si faccia gratuità anche in ciò che mi verrà consegnato, in ciò che mi verrà chiesto di servire».
Gli uomini leggono le caratteristiche personali e scelgono, ispirati dallo Spirito. Quali i tratti del tuo ministero?
«Le diverse esperienze pastorali sicuramente sono state importanti per me, mi hanno fatto crescere, mi hanno fatto entrare in relazione con tante situazioni anche più grandi di me. Penso anzitutto all’esperienza qui al santuario dei Santi Medici a Bitonto, come parroco-rettore e come presidente della Fondazione che ad oggi conta una novantina di dipendenti e una novantina di volontari. Un’opera che il prossimo 18 novembre (guarda caso, data della mia nomina vescovile) celebrerà il trentesimo anniversario, iniziata dal mio predecessore Mons. Francesco Savino, adesso Vescovo di Cassano all’Jonio. Una realtà che contempla all’interno diversi servizi caritativi: hospice per malati terminali, centro diurno per minori in difficoltà, mensa, comunità terapeutica, Casa per donne con figli, dormitorio Bari. Tutte rea-ltà che mi hanno fatto crescere molto. A queste si aggiunge l’esperienza di quasi 9 anni di direttore della Caritas diocesana di Bari-Bitonto che mi ha portato all’incontro inquieto con i più poveri. Spesso si mette in luce ciò che noi riusciamo a fare per i poveri. Poche volte leggiamo il contrario; io in questa esperienza di servizio leggo soprattutto ciò che i poveri hanno restituito a me e cioè la mia personale povertà, vulnerabilità e fragilità.
Altro dono è stato il fatto di poter collaborare con laici e con sacerdoti e persone che in maniera diversa mettono a disposizione talenti, qualità, professionalità, competenza, cura. Questo ti dà un maggior respiro e ti fa pensare alla realtà che servi non identificata con te, con la tua persona, col tuo ministero. Fa guardare e ti fa pensare a noi che nella storia cerchiamo di riprodurre nel piccolo il più possibile l’esempio di Gesù, Buon Samaritano dell’umanità, che ancora oggi fascia le ferite di tanta gente ferita, stanca, incapace di guardare con speranza al futuro.
Non ultima, nel mio cammino sacerdotale, l’esperienza precedente anche in Azione Cattolica come assistente nazionale del Settore Giovani.
I laici mi hanno insegnato tanto; scherzando – ma non troppo – spesso dico che il seminario mi ha insegnato chi è il prete, l’Azione Cattolica mi ha insegnato come si fa il prete».
Come vedi oggi la figura del sacerdote? Quali caratteristiche, quale propensione deve avere in questo contesto storico sociale e culturale?
«All’indomani della pandemia è ritornato spesso un versetto del profeta Geremia il quale dice: “Anche il profeta e il sacerdote si aggirano per la regione senza comprendere» (Ger 14,18), si aggirano per il paese e non sanno che cosa fare. Penso che in questo tempo storico, culturale, ecclesiale non sia facile darsi dei contorni ben definiti, decidere l’azione da porre in essere. Ma è comunque un tempo provvidenziale in cui se anche non sanno cosa fare, il sacerdote e il profeta comunque possono ascoltare. Quindi è un tempo, probabilmente, in cui lo Spirito chiede alla Chiesa, chiede a noi sacerdoti soprattutto un ascolto non formale, non di facciata, non occasionale, ma profondo, per intuire, anche dietro le sfide della storia, qualcosa che immediatamente forse ci sfugge ancora. Questo è anche un esito della secolarizzazione che sta prendendo un po’ tutta la nostra nazione, anche le nostre regioni del Sud e noi ce ne stiamo accorgendo. Mi azzardo a dire che i frutti della secolarizzazione e della pandemia li stiamo subendo e li subiremo ancora di più noi popolazioni del sud. Ma questi fattori in realtà possono essere anche dei segni dei tempi attraverso cui lo Spirito chiede alla Chiesa: tu da che parte stai? Forse Dio scommette più di noi sulla nostra povertà, sulla nostra incapacità. Non è un tempo ibrido, soltanto un tempo in cui si giocano delle scommesse. C’è una fedeltà di Dio verso il suo popolo che non viene meno e che noi, in modo particolare noi ministri ordinati, dobbiamo traghettare, anche se in maniera diversa. Dio sta parlando, Dio rimane lo sposo di questa umanità, Dio è fedele. Non dobbiamo pensare che sia un tempo vuoto, per cui ciascuno si arrangia nei propri piccoli orticelli, semmai è un tempo per rafforzare anche la comunione nei nostri presbiteri, anche tra noi sacerdoti, come segno importante per la gente, come esempio di superamento dell’individualismo. Ce lo chiedeva la Lumen gentium».
E invece ai laici cos’è richiesto al di là di quanto scritto nel Magistero?
Se il Papa chiede a noi preti di portare su di noi l’odore delle pecore, ho chiesto spesso ai laici che loro possano portare un po di più la puzza del mondo nelle nostre realtà, nelle nostre comunità, perché a volte, in maniera quasi asfittica, si partecipa alla vita delle comunità, anche parrocchiali, senza portarvi dentro i veri tormenti dell’umanità, le vere inquietudini. Il laico che fa anche il catechista, l’animatore della liturgia, l’operatore della carità e viene in parrocchia, a me interessa anzitutto perché lui è un genitore, un professionista, uno che vive nel mondo e nella storia e ha le mani in pasta. Quello per me è il primo servizio che un laico può rendere. Pensiamo in primis anche a tutta la difficoltà delle nuove generazioni, nell’esprimere, anche in maniera emotiva, i bisogni più profondi che portano dentro. Quindi io penso che i laici davvero non possono fare molto, ma sono chiamati già con la loro presenza, con la loro identità, ad essere delle presenze significative che non si nascondono dietro il ruolo che gli viene affidato».
Hai vissuto come assistente nazionale dei giovani, cosa è richiesto a una parrocchia per essere a misura di giovane?
«Le nostre comunità sono chiamate a trasformarsi. Siamo comunità che ancora come orari, linguaggi, modalità… sono preimpostate forse per altri tempi, per altri momenti, per altri destinatari. Probabilmente con l’aiuto dei giovani – senza pensare solo ai giovani – coinvolgendoli, facendo loro percepire il loro sano protagonismo, si può ripensare il modello di Chiesa. San Benedetto diceva che l’abate deve ascoltare anche il più giovane, farsi consigliare anche dal più giovane che, apparentemente più inesperto, è l’ultimo arrivato e io penso che questa capacità anche da parte della Comunità sia provvidenziale. Ecco, a me piacerebbe dire a ciascun giovane in ricerca: guarda che la fede in Gesù non dimezza, non castra la tua umanità, ma la moltiplica, la rende migliore come nessun altro. Nelle nostre comunità sia permesso ai giovani di fare un’esperienza di fede, siano guidati a partire dal Vangelo, con esperienza, soprattutto eucaristica, che si traduce poi in un servizio anche caritativo.
Penso anche che il Cammino sinodale sia provvidenziale, non come un’iniziativa o una serie di iniziative da mettere in campo, ma come un metodo. La sfida più bella del Sinodo sia riproporre un cammino di popolo, di una Chiesa di popolo che cammina nel tempo e nella storia. Non separandosi da tutto ciò che accade. Ecco perchè nel mio motto episcopale ho voluto scegliere Gaudium et spes. Sento che davvero tutto ciò che fa battere il cuore al mondo, ciò che rattrista anche il cuore del mondo, non può non trovare eco nel cuore dei discepoli di Gesù i quali non fanno una storia a parte, ma in questa sono chiamati come lievito a starci dentro fino in fondo, fin negli inferi».
Vedo la cartina della diocesi sulla vetrinetta, con le zone pastorali della diocesi di Rieti. Quale Chiesa ti attende?
«In realtà ancora non la conosco, sento la vicinanza del mio predecessore Mons. Domenico Pompili, molto caro verso di me, così come anche della mia Chiesa diocesana di Bari-Bitonto, col mio vescovo Monsignor Giuseppe Satriano, i presbiteri.
Sappiamo che il territorio della diocesi di Rieti conta 90.000 abitanti, oltre metà in città, gli altri sparsi sui 47 Comuni e frazioni della Diocesi, alcune molto piccole.
Una Comunità sconvolta dal sisma dell’agosto del 2016 e a questa ferita si aggiunge quella della pandemia e della guerra. Un popolo ferito, ma anche un popolo davvero capace di grande dignità, perché desidera mettersi in piedi e ricostruire, non solo le città, le strade, le case, ma ancor di più un vissuto anche interiore che faccia guardare in maniera alta al futuro. Penso sia molto importante un compito di presenza e di vicinanza verso tutti e anche verso le nuove generazioni che ovviamente sono tentate di andar fuori perché la ricostruzione, soprattutto in alcuni luoghi, è abbastanza difficile. Invece occorre ridare speranza e ripartire dal territorio con le sue sfide per animarlo e per vivere con dedizione al massimo tutto ciò che si potrà vivere».
Quella croce pettorale al collo è molto eloquente…
«Me l’ha messa al collo Monsignor Satriano, il mio Vescovo, nel momento dell’annuncio e ovviamente è stato emozionante. Questo perché don Tonino è sempre stato un riferimento per me sin dagli anni del magistrale frequentato a Terlizzi.Mi ha sempre accompagnato questa figura, negli anni di seminario ho avuto sulla mia scrivania in maniera fissa quell’espressione tanto cara e tanto conosciuta “Ama la gente, i poveri soprattutto e Gesù Cristo. Il resto non conta nulla”. Mi ha sempre provocato. Io don Tonino lo definisco simpaticamente un vero e proprio “antiruggine”, perché anche nei momenti più faticosi del mio ministero tuffarmi nei suoi testi, nei suoi scritti, è stato un modo per far vibrare l’anima. Don Tonino è stato un vero profeta, perché immerso in Dio, ha saputo veder lontano. Forse è questo quello che ci manca di più, questa capacità di affondare nel cuore di Dio per saper vedere più lontano, anche nel cuore degli uomini. Quindi mi affido alla sua particolare protezione, ma senza nessun tentativo di scimmiottarlo perché non ne sarei capace. Mi sento un piccolo alunno alla sua scuola e così vorrei rimanere».
Il tuo augurio alla Diocesi di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi
«La Diocesi di Molfetta mi è sempre stata cara, anche perché il made in Molfetta è l’imprinting dato a centinaia di preti che lì si sono formati. Io mi son formato lì, quindi ho anzitutto un sentimento di gratitudine verso questa terra che ha avuto l’onore di essere servita e guidata da don Tonino Bello e, prima e dopo di lui, anche da bravi Pastori, vescovi e sacerdoti. Colgo l’occasione per inviare un affettuoso saluto al Vescovo Domenico e ringraziarlo per la vicinanza e la preghiera in questa nuova fase della mia vocazione e del mio ministero. La vostra Diocesi ha un Clero e un laicato impegnato, importante, e io vorrei augurare di non sciupare i talenti, i tanti talenti che sicuramente ci sono, ma di saperli investire per il meglio. Senza richiamarsi solo al passato, senza fughe verso un futuro ancora ignoto, ma scommettendo già nel presente. Chiediamo di essere sempre più audaci in questa scelta, nelle nostre scelte, a cominciare dalla stessa scelta del Vangelo».
E il nostro augurio per don Vito è racchiuso proprio in quella croce pettorale, anch’essa tratta dall’ulivo, segno di una terra, icona biblica, messaggero di pace.
Intervista a cura di Luigi Sparapano
© Luce e Vita
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