«Aver i piedi legati è un ostacolo alla corsa, la tristezza lo è per la contemplazione». Con questa semplice ma chiara immagine del corridore con i piedi legati, Evagrio Pontico in un suo trattato descrive lo stato dell’uomo avvinto dalla tristezza.
Evagrio Pontico è un autore cristiano del IV secolo il quale, da un lato ha elaborato una riflessione sulla persona di Cristo molto discussa in quanto non del tutto ortodossa, dall’altro però è stato un grande maestro di spiritualità. Ha infatti condiviso l’esperienza monastica e ascetica diffusasi molto nell’oriente cristiano proprio in quel secolo d’oro per la teologia e la spiritualità. Leggendo le sue opere ascetiche si percepisce una grande conoscenza dell’interiorità umana e delle dinamiche più profonde dell’anima. Le sue osservazioni e i suoi consigli, frutto dell’esperienza di condivisione con tanti altri monaci ed eremiti, sono spesso più validi e preziosi di tante considerazioni psicologiche. Ne è un esempio proprio quanto dice a proposito della tristezza.
La tristezza è descritta antitutto come un ostacolo, un vincolo che impedisce movimento e limita la libertà, come un «ostacolo a ogni bene», dice Evagrio. L’uomo è fatto per muoversi, per correre, e la tristezza come una catena glielo impedisce, lo frena e, anche se il suo corpo e la sua mente non hanno
perso la loro potenzialità espressiva e dinamica, la tristezza da di dentro toglie la voglia di fare e impegnarsi per ogni cosa, essa è «un verme del cuore».
Ma se la tristezza è come un laccio attorno ai piedi, è come una catena pesante, da chi essa viene posta nel cuore dell’uomo? Dalle passioni insoddisfatte, risponde Evagrio. «La tristezza sorge dalla frustrazione dei desideri terreni» non soddisfatti.
Sono i desideri disordinati la causa della tristezza, che a volte può anche essere accompagnata dall’ira per non aver raggiunto le proprie aspirazioni.
Continua infatti Evagrio: «Il temperante non è rattristato dalla mancanza di cibo, né il casto per il fatto di non riuscire a ottenere un piacere sfrenato, né il mite quando non ottiene vendetta, né l’umile privato dell’onore umano, né colui che è indifferente alle ricchezze quando ha qualche perdita: infatti hanno evitato di desiderare tutte queste cose». Desiderare cose sbagliate, cose non degne di essere amate e per le quali non vale assolutamente spendere una intera vita, perché cose terrene e passeggere, è all’origine della frustrazione e della tristezza.
La conseguenza peggiore, tuttavia, è sulla vita spirituale perché la tristezza frena la preghiera. Infatti, nel suo Trattato sulla preghiera Evagrio Pontico dice che la preghiera è «frutto di gioia e gratitudine» ed è «difesa da tristezza e sconfitta».
Non sono conciliabili preghiera e tristezza, perché la preghiera è un atto di fiducia e di abbandono nell’amore forte del Padre, nell’amore oblativo del Figlio, nell’amore effusivo dello Spirito. Tuffandosi nell’amore, il cuore dell’uomo vince ogni tristezza, scaccia via dal cuore ogni malinconia, perde la frustrazione per i desideri terreni non raggiunti, in quanto ha scoperto, desiderato e raggiunto l’unico vero desiderio capace di riempire il cuore: l’amore Trinitario. E questo può solo provocare gioia e gratitudine.
Se la tristezza appesantisce il cuore e non gli permette di elevarsi nella preghiera, la gioia sincera che viene dalla fede e dalla fiducia in Dio lo solleva, lo innalza, lo libera da ogni catena e permette al cuore di correre spedito verso Dio carico di gratitudine e devozione.
don Giuseppe Germinario, direttore