Paradosso della settimana: per costruire qualcosa di stabile bisogna sapersi muovere. Per allestire un luogo sicuro bisogna correre dei rischi. Se volessimo costruire un edificio stabile e accogliente stando seduti a un tavolo, in èquipe, a progettare e riprogettare, studiare e confrontarci, senza che nessuno decidesse di muoversi, di mettersi a lavoro, faticando non poco, quell’edificio resterebbe solo un bel progetto, incapace di realizzare il suo obiettivo, offrire riparo e sicurezza.
Il magistero del Concilio Vaticano II, tra le altre immagini descritte al numero 6 della Lumen gentium, definisce la Chiesa «edificio di Dio», richiamando 1Cor 3,9. È una immagine significativa, molto più di quanto sembri, soprattutto molto attuale. L’edificio dice senz’altro stabilità e fermezza, sicurezza e riparo.
La Chiesa ha anzitutto questo compito: quello di essere un punto di riferimento stabile. Nel tempo della società gassosa, in cui assume un ruolo predominante la precarietà, degli oggetti come della cultura, della vita come delle relazioni, il Concilio ricorda alla Chiesa il suo compito di edificio, di pietra, di casa, di tempio, che ha per fondamento Cristo e apostoli, «e da esso riceve stabilità e coesione» (LG 6). Le immagini quasi quotidiane delle devastazioni dovute a tifoni o terremoti, a inondazioni o frane, spesso rispecchiano anche lo stato interiore di una società costantemente minacciata da disastri e paure, devastata da affanni e mancanza di prospettiva per il futuro. La Chiesa, grazie al suo fondamento divino, resta come casa sulla roccia, resiste ad ogni tempesta e offre all’umanità sfollata e dispersa accoglienza e ristoro.
Essa ha come unica certezza la fede nella Santissima Trinità, come unico nutrimento la divina Eucaristia, come unico farmaco la misericordia della Confessione, come unico mezzo di trasporto la forza della carità.
Ma è lo stesso Concilio a ricordare come questo edificio, che è la Chiesa, stando il suo fondamento, necessita continuamente di essere edificato dai suoi membri. Ed ecco il paradosso: per costruire qualcosa di stabile bisogna sapersi muovere. La stabilità della Chiesa si costruisce adoperandosi, lavorando intensamente, costruendo con fatica. Gli apostoli ne sono l’esempio, con il loro zelante pellegrinare ed evangelizzare; i santi ne sono lo sprono, con il loro instancabile prodigarsi nella preghiera e nella carità fattiva.
E noi? E la nostra Chiesa di oggi? È vero, potremmo cominciare dalle lamentele, notando come si impieghi tanto tempo in incontri, programmazioni, stesura di testi e sussidi, convegni e tavole rotonde, e poi ci siano pochi disposti ad agire, a mettersi in gioco, a vivere coerentemente, a credere e dedicare tempo alla preghiera. Ma qui non vogliamo cadere in quello che Papa Francesco definisce «un veleno dell’anima», appunto la lamentela. Perché mentre da una parte non si fa altro che parlare e discutere, dall’altra c’è una Chiesa giovane e attiva che già biondeggia (cf. Gv 4,35). La fede della Chiesa è uno stabile movimento dell’anima e del cuore, ma anche del corpo.
In questo numero di Luce e Vita abbiamo voluto dedicare alcune pagine alla Chiesa, alla sua identità e alla sua missione, in concomitanza con il Convegno pastorale diocesano e con le riflessioni sinodali. Oltre ad un focus sulla Lumen gentium, abbiamo avuto la possibilità di raccontare alcune esperienze di giovani in cammino alla ricerca della fede e della fraternità.
La vera fede è quella che ti mette in cammino, ti muove in sincronia con gli altri e si ferma solo per mettersi in ginocchio, o davanti a Dio per adorarlo o davanti al malcapitato samaritano per risanarlo.
Lontana dallo stile manageriale, la Chiesa è mossa dall’amore, che non fa progetti ma gioca sempre a sorprendere e, spiazzando, rende sempre nuova e giovane la storia.
don Giuseppe Germinario, direttore
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