È tardo pomeriggio. Gli altri hanno pensato bene di rimettersi a mollo in piscina, visto il caldo intramontabile. Le loro voci hanno interrotto il mio tentativo di un riposino sull’amaca.
Una fetta d’anguria, rossa, fresca, mi attira dentro la cucina della graziosa villetta in cui abbiamo deciso di trascorrere questa ultima domenica di agosto. Non resisto, ripeto l’assaggio dell’anguria, veramente buona, poi torno fuori.
Il sole è ancora alto, ma non più tanto, e gli ulivi ricominciano ad offrire un po’ di ombra alla terra arroventata. «Qualcuno vuole accompagnarmi a fare una passeggiata?» chiedo con desiderio di avere compagnia. «Io» dice Antonella e, subito, anche Marco «mi aggiungo». Fuori dal cancello ci avviamo per una strada sterrata, che si estende silenziosa nell’agro della bassa murgia.
Da lontano ogni tanto giungono lievi vocii, da qualche altra villetta vicina. Ma non tanto forti da impedire una piacevole chiacchierata.
Si parla dell’estate che, vicina al suo epilogo, non ha lasciato a nessuno dei tre la possibilità di un po’ di riposo. «Ho dovuto studiare tutti i giorni – dice Antonella – sto scrivendo la tesi che devo discutere a breve». E così ci parla dei suoi studi in ingegneria biomedica, dell’esperienza universitaria, di Torino dove oramai vive, dei suoi progetti e dei suoi timori. È la più giovane tra noi tre Antonella. La interrompe ogni tanto Marco, con il suo ritmico «anch’io quando ho studiato a Bologna…» e così via a raccontare la sua di vita universitaria. Ora vive a Londra ed è papà di un simpaticissimo bambino, rimasto con la mamma a rinfrescarsi in piscina.
Ascoltare la vita fa sempre bene al cuore, soprattutto se è la vita dei tuoi amici. Ti sembra di viverla un po’ con loro. Anche io non faccio mancare qualche mia considerazione, carico di tanti volti e storie incontrate ogni giorno.
Intanto, mentre le gambe sembrano essere gestite da un pilota automatico e ci portano avanti senza sapere dove, gli occhi non smettono di notare la brulla campagna circostante, delimitata come da argini dai muretti a secco, e i discorsi spaziano dalle nostre città, sempre più spopolate e segnate da una delinquenza a portata di mano, alla situazione internazionale preoccupante e sempre più lontana dai valori di fraternità e rispetto.
All’orizzonte ogni tanto, dopo una curva o una salita, furtivamente appare il Castel del Monte, silenzioso spettatore e discreto sorvegliante.
Ad un certo punto il mio sguardo si posa verso il basso. C’è ogni tanto della spazzatura qua e là, ma quello che vedo ora è un piccolo libricino. Giallo, vecchio, si vede, gettato lì da un po’ di tempo ma ancora intatto.
Mi incuriosisce, come ogni libro del resto. «Ragazzi un attimo, fatemi vedere qui cosa c’è». Ci fermiamo, raccolgo il libro. La copertina mi rivela la sua identità: è una vecchia traduzione italiana de I dolori del giovane Werther di Ghoete. Lo apro, 1952 è la data di pubblicazione.
«Hai trovato il testamento di Tutankhamon?!» esclama con evidente ironia Marco, colpito dall’espressione del mio sguardo. «No – gli rispondo – è semplicemente una edizione vecchia di uno dei testi più espressivi del romanticismo tedesco». Lo avevo letto nelle estati da liceale e ne ero rimasto colpito.
La tragica storia della passione amorosa di Werther esprime il groviglio dell’interiorità umana, provocata costantemente dalla bellezza che la circonda, tormentata dall’alterità, in conflitto con i propri limiti, determinata dalla fatalità della storia. Lo apro a caso e vedo delle righe sottolineate. Inizio a leggerle ad alta voce: «Cos’è mai l’uomo, semidio esaltato! Non gli mancan forse le forze proprio quando ne avrebbe maggior bisogno? Sia che s’esalti nella gioia, sia che s’umili nel dolore, non è forse trattenuto e riportato alla cupa e fredda coscienza di sé mentre aspirava a smarrirsi nella pienezza dell’infinito?»
Chissà chi lo aveva letto e sottolineato, chissà chi poi lo aveva gettato. La fantasia inizia a viaggiare nel mondo in bianco e nero. Eppure, chiunque sia stato, condivideva quelle parole icastiche dello scrittore francofortese.
Noi tre intanto iniziamo a tornare indietro, con quel piccolo trofeo tra le mie mani, trattenuti e riportati tra la consapevolezza di noi stessi e delle nostre storie e la grandezza dell’infinito, che i nostri occhi hanno cercato dopo ogni collinetta e che il nostro cuore desidera dopo ogni giornata.
È il mistero dell’uomo, contraddizione coerente, sinolo di contrari. È il mistero di Dio, fattosi carne per farci scoprire ciò che c’è oltre la carne.
Ora quel libricino è qui, vicino a me che scrivo, a fare da chiave di lettura delle storie e delle vicende che cerchiamo di raccontare nelle pagine del nostro settimanale.
Come Antonella e Marco, queste pagine ci raccontano spezzoni di vita, da condividere come tra amici. E ci aiutano a conoscere l’uomo con la sua risacca interiore, mosso dalla tensione tra terra e cielo.
don Giuseppe Germinario, direttore