Mentre scrivo, sento da lontano gli schiamazzi di alcuni ragazzi che giocano. Sono i figli degli abitanti di questa fortezza, che spesso passano al mattino diverse ore a divertirsi nel cortile interno.
Mi piace sentirli perché, in questo luogo di prigionia, sono il suono della libertà. La giovinezza è l’età della libertà, e la libertà è il segreto dell’eterna giovinezza.
Io sono giunto quasi a metà del corso della vita media di un uomo dei miei tempi, ma non riesco a non sentirmi giovane. Mi sento un ragazzo come quando lo ero anagraficamente e, come allora, anche oggi in questa prigione aspetto ogni giorno di sentire una voce chiamarmi e dire «Giovanni, dove sei? Vieni qui perché sono arrivati degli ospiti». Allora, tanti anni fa, era la voce di mia madre Elisabetta che gridava così affacciandosi alla porta sul retro di casa.
Io immediatamente capivo che erano arrivati i giorni più belli dell’anno, perché venivano a trovarci dei nostri parenti da Nazareth: Maria, cugina di mia madre, con il suo sposo Giuseppe e il loro figlio Gesù. Affrontavano un viaggio di quasi 144 km e dalla Giudea andavano a Gerusalemme per la Pasqua, come prescriveva la legge. Anche noi ci andavamo e, dopo il pellegrinaggio rituale, ritornati a casa li avevamo come nostri ospiti fino alla Pentecoste, quando, dopo aver ripetuto con noi il pellegrinaggio al Tempio, rientravano a Nazareth.
I giorni dalla metà del mese di Nisan alla metà del mese di Sivan, nei quali si fermavano a casa nostra, erano una festa. Per me la Pasqua non era solo la memoria della liberazione, ma era soprattutto la presenza di Gesù in casa mia. Era Gesù la mia Pasqua! E il resto dei giorni dell’anno li trascorrevo in attesa della Pasqua, in attesa della venuta di Gesù.
Non saprei dirvi quanto ci siamo divertiti insieme. Uno dei giochi preferiti era quello che facevamo con dei vecchi sandali di mio padre. Andavamo vicino alla fontana, ne mettevamo uno io e uno lui, dovevamo legare i lacci il più forte possibile e l’altro doveva scioglierli nel minor tempo possibile. Mettevamo una brocca sotto la fontana e chi non riusciva a sciogliere il laccio prima che la brocca si riempisse, perdeva.
Gesù vinceva sempre, tanto che lo chiamavo “liberatore”! Io, invece, non riuscivo nemmeno ad avvicinarmi al suo piede, non mi sentivo all’altezza neppure di toccarlo. Aveva un fascino sacrale e, nonostante fosse in tutto come me, era evidente che Egli era più di me e non mi sentivo degno nemmeno di sciogliergli il laccio di un sandalo. La sua presenza metteva in festa la mia vita, mi faceva sussultare di gioia.
Un giorno, mentre lo cercavo dietro il muro di casa, sentii che da dentro veniva un canto meraviglioso. Non era la prima volta che sentivo cantare in casa, ma quel giorno decisi di lasciare il gioco ed entrare: c’erano mia mamma Elisabetta e sua cugina Maria che danzavano mentre Maria cantava un canto e mia madre rispondeva ripetendolo, quasi lo sapesse a memoria. Ad un certo punto mi videro e allora, fattomi coraggio, domandai cosa stessero cantando. Mi raccontarono che quel canto lo aveva composto Maria quando io e Gesù eravamo ancora nel loro grembo, era un canto di gioia e di liberazione per magnificare il Signore per le sue grandi opere. Era un canto armonioso, un inno alla libertà, una lode alla bontà di Dio. Mi venne spontaneo ad un certo punto esclamare: «Maria, sei bellissima, come il tuo figlio Gesù».
don Giuseppe Germinario, direttore