Ormai è noto che sarà Luca Mazzone, terlizzese di origine, ruvese di adozione uno dei due portabandiera italiani, insieme ad Ambra Sabatini, alla Cerimonia d’Apertura dei Giochi paralimpici di Parigi 2024 che si terranno dal 28 agosto all’8 settembre.
La Federazione Ciclistica Italiana definisce Luca Mazzone, classe 1971, uno dei più grandi atleti nella storia del movimento paralimpico italiano. Dopo quel maledetto tuffo, a 19 anni, nelle acque di Giovinazzo e un lungo e faticoso percorso riabilitativo tra Italia e Francia, Mazzone approda al nuoto prima per terapia poi per sport, prendendo parte a tre edizioni dei Giochi Paralimpici: Sydney 2000 (dove vince 2 medaglie d’argento, nei 50 e 200 stile libero), Atene 2004 e Pechino 2008. Dopo il nuoto passa al ciclismo, con l’handbike, e partecipa ai Giochi Paralimpici di Rio 2016 e Tokyo 2020, collezionando l’oro nella crono, nel team relay e l’argento nella gara su strada in Brasile; argento nella gara su strada e nella cronometro in Giappone. Ai Campionati Mondiali di ciclismo, dal 2013 a oggi, vanta 18 ori, 3 argenti e 3 bronzi, grazie anche alla società. Un palmares che gli ha fatto meritare con onore di essere il nostro portabandiera.
Ma è solo merito sportivo?
Questa domanda è da porre a chi mi ha investito di questo onore (la Giunta del Comitato Italiano Paralimpico su proposta del Presidente del CIP Luca Pancalli, ndr). Devo dire che ho lavorato sempre con tanta umiltà, mi sono allenato in due sport, nuoto e paraciclismo, dove la fatica è l’amica di tutti i giorni. Umiltà che mi ha portato a conquistare diciotto ori ai mondiali, tre alle paralimpiadi, otto argenti. E, come diceva Mennea, qui al sud è tutto più difficile, per questo penso di meritare questo onore, per aver raggiunto questi risultati con grandi sacrifici personali e di chi mi sta vicino e ha creduto in me in tutti questi anni.
Il presidente Mattarella si è complimentato con te.
Mi ha sorpreso la sua memoria perché quando si è avvicinato a me per stringerci la mano ha detto “Luca sei proprio bravo, hai fatto tre olimpiadi del nuoto e tre nel paraciclismo, una versatilità e longevità fuori dal normale”. E lo ha detto anche nel suo discorso, facendomi commuovere, riconoscendo in me un atleta a tutto tondo che si caratterizza per la costanza e la tenacia.
Adesso dove ti trovi, quali saranno i prossimi passaggi verso le paralimpiadi?
Mi trovo a Rovere (Aq) dal 30 giugno dove da anni vengo in ritiro con la Nazionale. Ci vengo da solo, ma di tanto in tanto viene la mia famiglia a trovarmi per qualche giorno, come in questo periodo, fino alla mia partenza per Parigi il 27 agosto. Mi sto preparando duramente, come del resto tutti gli anni, dando il massimo sotto la guida del mio preparatore Michele Maggi di Piacenza, prendendomi cura di ogni aspetto, dall’alimentazione all’allenamento alla manutenzione della bici. Dopo l’incidente a Glasgow, dove ho rotto la bici, la mia associazione Circolo Aniene di Roma mi ha comprato un altro telaio con cui mi sto trovando bene, con tecnologia di ultima generazione. In Francia le gare saranno il 4 settembre, la cronometro, poi il 5 la gara in linea e la terza, il 7 settembre, la staffetta team relay, se sarò convocato.
Qual è la tua giornata tipo?
Giornate piene che iniziano alle 7,00 di mattina, con la colazione abbondante, l’allenamento che dura dalle tre alle quattro ore partendo dalle 9,00, dopo aver preparato il necessario per l’allenamento. Pranzo in hotel e riposo pomeridiano, poi fisioterapia e manutenzione della bici perché non ho con me un meccanico. Ritmi faticosi ai quali sono abituato, senza lamentazioni, perché lamentarsi non serve. Poi cena e presto a letto per ricominciare il giorno dopo.
L’antifragilità è l’antica arte di migliorare quando le cose peggiorano. Quanto è vero per te questo antico detto?
Ognuno è maestro della propria antifragilità perché rispetto a quanto può accadere nella vita spetta a ciascuno reagire in maniera positiva, scongiurando il vittimismo e la depressione. Ovviamente i casi sono diversi. Io sono stato maestro della mia antifragilità e non posso insegnare ad altri se non essere di esempio. È la testa che deve prendere in mano la situazione e aiutarti a raccogliere i mille pezzi in cui ti sei frantumato, a causa del fato, per ricomporli, proprio come i maestri giapponesi dell’arte kintsugi. Al primo posto io ho messo la gioia di vivere, quella vita che il Signore e i genitori ci hanno donato.
Famiglia e fede: quale sostanza danno alla tua vita di uomo e di atleta?
Ho rimarcato il concetto della famiglia anche nel mio discorso come portabandiera davanti al Presidente della Repubblica. La famiglia è stata fondamentale soprattutto prima della vita sportiva, dall’incidente in poi. Mi ha aiutato a raccogliere, come dicevo prima, i cocci della mia vita di diciannovenne che si ritrova senza l’uso degli arti, e a incollarli. È stata fondamentale nella mia riuscita di uomo e di atleta. Mia madre mi ha incoraggiato insieme a mio padre e ai miei fratelli e sorelle, spingendomi ad andare in piscina a fare tante ore di allenamento, per approdare poi al nuoto. Nella seconda vita da sportivo, con il paraciclismo, è subentrata mia moglie Mara, dopo il matrimonio, e lei è il mio alfiere, il mio guerriero di spalla che mi ha aiutato in tutto. Mi chiamano campione, ma senza di lei non ce l’avrei fatta.
Accanto alla famiglia c’è la fede. Ho come immagine che mi guida quella di Gesù che viene fustigato e sopporta quei dolori per noi. Pensando a quei dolori mi faccio forza per la mia vita. Grazie a Dio mia moglie è molto credente e io vivo la mia fede anche attraverso mia moglie.
E dopo Parigi?
È una risposta che lascio in sospeso. La cosa che posso dire è che vado avanti giorno per giorno, come ho fatto dopo Tokyo. Giorno per giorno, non mese dopo mese. Quando la mia mente e il mio fisico diranno basta, finirò questa bella avventura.
Abbiamo perso un amico comune, Renato, che ti ha molto sostenuto. Quale ricordo hai di lui?
Renato è stato una persona fantastica per me, mi dava coraggio attraverso la sua stima. Un giornalista con la “G” maiuscola. Era così bello leggerlo e attraverso le sue parole sapeva rendere tattili i suoi pensieri al punto che rimanevo quasi dispiaciuto che l’articolo fosse terminato. Attraverso i social mi ha sempre sostenuto. Mi chiamava “Luca delle meraviglie”, un suo modo sempre speciale di incitarmi. È sempre nel mio cuore e lo penso sempre dopo ogni gara per raccontargli le mie emozioni e lasciare a lui trasformarle in poesia. Non ho potuto partecipare ai suoi funerali, perché fuori sede, ma mi sono unito a lui e alla sua famiglia per affidarlo al Signore.
intervista a cura di Luigi Sparapano