di Giovanni Capurso
Camminiamo su una lunga salita, prima sulla strada appena asfaltata e poi sterrata. Da lontano s’intravede una chiesetta di campagna affiancata da semplici costruzioni e isolata da tutto il resto. Le prime abitazioni si trovano ad alcune centinaia di metri. Il luogo che vogliamo raggiungere è praticamente un eremo.
Un crocchio di casupole tra vie sterrate, senz’acqua e senza corrente elettrica e miseria contadina: così si presentava Barbiana allo sguardo di don Lorenzo quando arrivò trentunenne in questo luogo per contrasti con la Curia di Firenze, che lo riteneva troppo critico verso la Chiesa.
La gente del posto subito mormorò: “Chissà cosa avrà fatto un prete così giovane per essere mandato qui!”
Ma lui trasformò quel luogo geograficamente insignificante in un’isola di luce per gli ultimi: iniziò ad accogliere ragazzini che erano stati mandati via della scuola pubblica perché troppo somari. In brevissimo tempo la canonica della chiesa iniziò ad essere affollata da studenti e la scuola del priore rapidamente varcò i confini del villaggio, diventando questione nazionale e scuotendo le coscienze.
Ancora oggi a Barbiana tutto è rimasto intatto. “Nei locali della canonica ci sono ancora i tre tavolacci di legno che i ragazzi di don Milani disponevano a ferro di cavallo per trascorrere intense giornate di studio insieme al priore. Appese alle pareti ci sono le mappe che disegnarono per illustrare le varie fasi della Seconda guerra mondiale, la conquista del diritto di voto in Italia, le tappe della decolonizzazione in Africa. A queste sono state aggiunte delle foto d’epoca, quasi a rafforzare il ricordo di quegli anni. E poi la lavagna, le sedie spaiate, la piccola biblioteca con i libri dell’epoca, la foto di Gandhi e il Padre nostro trascritto in cinese, l’astrolabio e il tecnigrafo che i ragazzi costruirono con le loro mani. Infine quella tavoletta di legno inchiodata a una porta con la scritta I care” (Riccardo Michelucci e Enrico Lenzi su Avvenire del 24 maggio 2023), divenuto il motto della sua azione educativa.
Sul priore di Barbiana, il cui impegno educativo ha acceso un dibattito ancora oggi molto vivo sui metodi e sulle finalità della scuola, ci limitiamo in questa occasione a consegnare al lettore qualche ulteriore spunto di riflessione senza avere nessuna pretesa di esaustività sull’argomento.
Possiamo dire innanzitutto che l’esilio di Barbiana per don Milani divenne missione di vita: quella di restituire, attraverso la scuola, l’eguaglianza che la società non rendeva e riconosceva a tutti i cittadini, educando i giovani al rispetto delle regole, quelle che sono a salvaguardia per i deboli.
In questo villaggio sperduto nacque, nel 1967, il celebre libro Lettera a una professoressa, che scandalizzò molti in quanto manifesto di denuncia alla scuola classista dell’epoca che mandava avanti i ricchi e dimenticava i poveri.
Ancora oggi questo luogo sperduto continua a suscitare stimolanti dibattiti e riconoscimenti sul valore della sua proposta pastorale e pedagogica come la recente visita di papa Francesco presso la sua tomba ha dimostrato. All’epoca molti fraintesero il messaggio di don Milani, vedendo in lui una sorta di Savonarola all’interno della Chiesa. Nulla di tutto questo. La sua azione fu sempre animata da un profondo amore e senso di obbedienza. Non considerava un impegno privato il suo: “Temeva che quel clima – ha dichiarato un prete che lo conosceva – avrebbe vanificato la sua scelta di servire la Chiesa attraverso i poveri, col rischio che, agli occhi della gente di Barbiana, il suo apostolato apparisse un fatto privato”.
Invece a un intellettuale pugliese, che gli scrisse per incoraggiarlo, rispose: “Ho guardato tutto con gli occhi del prete. Non propongo nessuna riforma. Non mi importa che il mondo vada meglio. Non consiglio le mie soluzioni. Non vorrei governare né la chiesa né il mondo”.
Alla sua scuola si sono ispirate tante altre scuole, anche se non si può dire che ci siano state repliche dell’esperienza di Barbiana.
In tal senso, la sua esperienza pedagogica e pastorale è la dimostrazione di quanto, in condizioni impossibili, possano realizzare qualunque un uomo o una donna capaci di amare e lavorare per gli altri. Una volta il priore scrisse alla madre: “La grandezza di una vita non si misura dalla grandezza del luogo in cui si è svolta, ma da tutt’altre cose. E neanche le possibilità di fare del bene si misurano dal numero dei parrocchiani”.
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