Uno dei primi cristiani a scrivere opere in lingua latina è Minucio Felice.
Dotto e noto avvocato a Roma, vissuto tra il II e il III secolo d. C., quest’uomo era un pagano convertitosi poi al cristianesimo.
Dopo la sua conversione scrisse un’opera intitolata Octavius. È un’opera apologetica, cioè scritta in difesa della fede cristiana. Il mondo pagano nutriva molti dubbi, molte perplessità, a volte anche avversità, verso questa strana ma molto diffusa dottrina di fede e di vita: il cristianesimo.
Minucio scrisse quest’opera apologetica anche per giustificare e far comprendere la sua personale adesione al cristianesimo, non banale vista la sua cultura elevata e la sua posizione sociale dignitosa.
L’Octavius è un’opera davvero bella. Si tratta di un dialogo tra due personaggi, Cecilio e Ottavio, da cui appunto prende il nome l’opera, i quali stanno camminando sul litorale di Ostia. Insieme a loro c’è anche lo stesso Minucio, il quale fa da moderatore tra i due, uno pagano e l’altro cristiano, che si confrontano sul tema religioso. Il resto lo si può scoprire leggendo. Ma va notata la caratteristica, in realtà diffusa nell’antichità, di un’opera apologetica che si presenta come dialogo e cammino. Due elementi molto familiari anche a noi, Chiesa dal terzo millennio!
Uno dei temi sempre attuali è quello del rapporto del cristiano con la debolezza e la sofferenza, non solo interiore ma anche fisica.
Sembrerebbe, ad un osservatore esterno, che la fede non risparmi le fatiche dell’essere umani e dell’essere corporei e, quindi, non produca alcun vantaggio né alcuno sconto sulla durezza della vita.
A tal proposito si legge ad un certo punto nel testo: «Il fatto che noi cristiani sentiamo e soffriamo le debolezze del corpo umano non è un castigo, ma un allenamento. La forza infatti si rassoda con le debolezze e la calamità spesso è scuola di virtù».
Forse ancora oggi c’è qualcuno che pensa che le sventure siano quasi un castigo, spesso però capitato alla persona sbagliata. Non è così. La sofferenza ha valore di allenamento, la debolezza ha valore di incentivo alla crescita, la difficoltà ha valore di prova. Esse, infatti, costringono l’uomo ad industriarsi interiormente ed esteriormente per attraversare e cercare di superare quanto di difficile sta vivendo.
Continua infatti l’Octavius: «Le energie dello spirito e del corpo, se non si allenano nella fatica, intorpidiscono; e tutti i vostri eroi che voi proponete come esempio [si riferisce agli eroi pagani], raggiunsero la gloria per le loro sofferenze».
La vita dell’uomo si atrofizza, come i muscoli degli eroi e campioni dello sport, se non è costantemente sottoposta ad allenamento. E questo comporta fatica, prove sempre più dure, a volte strappi e cadute.
E il nostro Dio cosa fa nel frattempo? Si disinteressa dei suoi figli e li lascia da soli nel campo polveroso delle difficoltà? Così risponde Minucio: «Non è che Dio non ci possa aiutare o che ci disprezzi, Egli che regge e ama tutti i suoi; ma nelle avversità Egli esamina e giudica ciascuno di noi; nei pericoli pesa l’animo dei singoli e fino al momento della morte valuta la volontà dell’uomo, sicuro che nulla può andargli perduto».
Ecco, Dio non distoglie lo sguardo dai suoi figli, non si disinteressa di noi. È come un Padre che con amore guarda il proprio figlio mentre prova a destreggiarsi con la gravità e a cercare di imparare a camminare. Mette alla prova, come un allenatore, la nostra crescita nel saper vivere e superare le difficoltà, con l’amore di chi vuole il meglio per i suoi figli. E, soprattutto, è sempre pronto a dare un’altra possibilità, fino al momento della morte, purchè nessun figlio vada perduto.
don Giuseppe Germinario, direttore