Ogni parola può essere una violenza. Violenza a chi soffre e non sa che farsene delle nostre parole. Violenza a una parte mentre si parla dell’altra. Violenza alla intimità di chi vede la propria vita invasa e distrutta. Violenza alla dignità di chi è stato privato di tutto. Violenza ai sopravvissuti uccisi dal dolore. Violenza ai morti che meritano silenzioso rispetto. Tutti. Violenza per i tanti civili che sentono dare troppe parole per pochi violenti. Violenza per tutti gli altri poveri e vittime del mondo che soffrono come quelli sotto l’attenzione dei riflettori di oggi. Violenza di chi vive sulla pelle ciò che noi non possiamo nemmeno lontanamente immaginare. Violenza. Ogni parola può essere una violenza, spiaccicata nei talk show o sui giornali, può essere violenza perché amplifica, moltiplica, reitera la violenza. Soprattutto se dà spazio ai violenti.
Tuttavia, noi abbiamo sempre bisogno di parlarne, forse anche per metterci la coscienza a posto. Ne parliamo per illuderci di stare facendo qualcosa, col rischio di innescare un processo di autoassoluzione per essercene dimenticati finora. Perché nella maggior parte dei casi le nostre parole arrivano sempre dopo, quando è fatta, quando è troppo tardi, quando diventano solo una eco del peggio già avvenuto. E pensiamo che, parlando, possiamo recuperare anche le parole non dette quando andavano dette, le attenzioni non date quando eravamo distratti da altro.
Parlare. Pretesa di onnipotenza che, dimentica della unica Parola potente ed efficace, quella di Dio, crede sia sufficiente moltiplicare la forza del flatus vocis per ottenere qualcosa.
Parlare. Isteria di impotenza che, drasticamente destata dalla realtà, spera di garantire la dignità limitandosi a declamarla.
In alcuni momenti anche Dio tace, forse proprio nei momenti in cui tutti si aspetterebbero la sua voce. Dio fa silenzio, non interviene, «disgustato dall’agire dell’umanità», come ebbe a dire San Giovanni Paolo II già nel 2002, e il Suo silenzio è «provocato dal rifiuto dell’uomo» di convertirsi a Lui e ai suoi progetti di perdono. Lo stesso Santo Papa, quasi un anno dopo, aggiungeva che questo «silenzio divino è spesso motivo di perplessità per il giusto e persino di scandalo». Ma non è silenzio di assenza, «quasi che la storia sia lasciata in mano ai perversi e il Signore rimanga indifferente e impassibile», bensì «è il giudizio divino sul male», concludeva il Papa. Il Suo silenzio è attesa, attesa che gli uomini in un’unica voce si rivolgano a Lui e, convertitisi, invochino misericordia.
Silenzio. Non indifferenza, ma indignazione di chi resta senza parole e attende che la pace fiorisca senza violenza. Perché in questo differisce la pace: essa, come Dio, non si impone, non grida e non costringe. Essa attende silenziosa che gli uomini, fatto silenzio, la invochino cantando all’unisono come nei giorni di festa. Il nostro silenzio, allora, vero grido di indignazione contro la violenza, può solo essere rotto dalla preghiera, che chiede perdono per le iniquità. Dove non c’è più la giustizia, ma abbonda il peccato, l’unica mediatrice di pace resta la misericordia, mantenuta in vita dalla preghiera. «E quindi – concludeva San Giovanni Paolo II – preghiera e penitenza».
don Giuseppe Germinario, direttore