Da vedere

Quando ti siedi alla poltrona di un cinema per vedere un film di Sorrentino puoi essere sicuro che all’uscita da quella sala avrai tanto da pensare e ripensare a quello che hai visto. È così anche per il suo ultimo capolavoro Partenope: storia di una ragazza e di una città che reciprocamente si intrecciano e si rispecchiano, dalle reminiscenze mitologiche alle contraddizioni sociali, dalle esperienze popolari al mondo elitario e sontuoso napoletano.

Non preoccupatevi, non voglio spoilerare nulla del film, anche perché a dire la verità è impossibile spoilerare un’opera così ricca e complessa, nella quale il regista non si limita a dispiegare la narrazione di una vicenda o di una storia, ma si impegna a intrecciare significati e provocazioni, frasi ad effetto (come speso si ripete nel film) e sguardi evocativi.

Sono proprio questi sguardi evocativi a darmi motivo per una prima riflessione: inquadrature artistiche ed espressioni dei volti silenziosamente eloquenti nel film sono una costante, come tipico di questo regista, e fanno ripensare subito tanto all’espressività dell’arte figurativa quanto alla comunicatività dei volti nella vita quotidiana. Ascoltare l’altro non è solo percepire i suoni prodotti dalla sua voce, non è solo capire la morfosintassi delle sue parole, ma è anche guardarlo. Il vedere, che è un tema presente nel film, è un leggere o, meglio, un cercare di leggere la realtà del volto. Nel film, certo, ma forse dovrebbe esserlo di più anche nella vita. Guardare l’altro, osservare il suo volto, leggere nelle trame della sua pelle liscia o rugosa, plissettata dai sorrisi o aggrinzita dalle lacrime. Mi verrebbe da domandarmi quanto i nostri occhi, come un apparecchio da ripresa cinematografica, si fermano a inquadrare il volto dell’altro, si fermano silenziosi a leggere l’indicibile.

L’indicibile è un altro filo che regge la trama del film, che qui si cerca però di dire. Sono tanti, in realtà, i fili di questa trama, e tra questi spicca sicuramente quello della bellezza.
La bellezza non lascia indifferenti, ha un potere travolgente, beauty is like war, it opens doors – la bellezza è come una guerra, apre le porte, dice il John Cheever del film. Attraente e sconvolgente, la bellezza genera anche la tristezza, l’insoddisfazione, il senso del tutto che si ritrova ad essere niente. La bellezza nasconde le contraddizioni e al tempo stesso le rivela, come la giovinezza. La bellezza alimenta l’amore ma a volte anche lo inganna, favorisce le relazioni ma a volte anche le inquina. Bellezza estetica e bellezza drammatica, bellezza della persona semplice e bellezza della attrice famosa, sempre pronta a diventare grottesca. La bellezza dell’amore, poi, tormenta e disorienta, fino alla morte. Non manca, infatti, il tema della morte, morte prematura e dolorosa, che sconvolge la vita e alimenta le domande.

Tra le numerose trame che rappresentano la città e la donna che nel film fanno da protagoniste, è presa in considerazione anche la presenza della Chiesa. Provocatorio e interessante, il ritratto che ne emerge porta a una riflessione del rapporto con il sacro, il miracolistico, il devozionale, ma anche con il peccato e la contraddizione. Probabilmente questa sarà un’opinione personale, ma Sorrentino, il quale già in altre sue opere ha ben descritto alcuni aspetti della vita ecclesiale, sembra anche voler mettere in luce la ambigua attrazione per la ricchezza, l’equivoco rapporto con i beni materiali che si pone sullo stesso piano della turpe tentazione di violare la purezza.

Non riesco sicuramente ad esaurire in queste poche righe le considerazioni su questo film che, come tanti altri, è una occasione di riflessione. Nel susseguirsi delle scene si alterna più volte la domanda posta al professore universitario di antropologia su quale sia la definizione di antropologia e fino alla fine né il professore né la protagonista, che studia antropologia e poi ne diventa professoressa, riescono a dare una risposta. Forse perché l’antropologia non esiste, ma esistono gli uomini e le donne che vivono, che ridono e piangono, e che nessuna teoria antropologica e psicologica riuscirà mai ad esprimere esaustivamente e scientificamente.

L’uomo è il mistero più bello e più grande, il miracolo più santo e discusso, il fenomeno più vero e contraddittorio.

don Giuseppe Germinario, direttore