Chissà se qualcuno di voi conosce Giovanna. Vive al terzo piano di un condominio nella zona periferica della nostra città. Ogni giorno, o forse potremmo dire ogni notte, alle 4.00 del mattino sente il rumore della porta di casa. Sa bene che è Andrea, il suo terzo figlio, che solo due settimane fa ha compiuto diciannove anni. Interrompe ogni giorno il sonno della mamma con quel rumore di porta che, seppur cerca di limitare al massimo mettendo in atto tutta la sua capacità e delicatezza, la mamma non riesce a non sentire. Non perché sia forte, ma perché è del figlio.
È preoccupata Giovanna, non perché Andrea si ritira ogni giorno a quell’ora, ma perché esce ogni giorno a quell’ora. Esce per andare a lavorare in un panificio. Prende la sua bicicletta rossa, attraversa la città dormiente, per arrivare nel retro di quel panificio, in quel palazzo di pietra bianca nel centro del paese. Spesso, soprattutto nel fine settimana, gli capita di incrociare i suoi amici che sfrecciano sul motorino e lo salutano allegramente, di ritorno da una festa o da una serata a ballare. E inizia la sua giornata tra farina, acqua, forno e… sacrificio. Lo vede tornare ogni giorno bianco, coperto di farina e sudore, con il candore che lo fa assomigliare ad un angelo. Giovanna ci pensa sempre a quanto sacrificio costi quel lavoro a suo figlio, il più piccolo. Aveva sentito per anni le sue professoresse dire che “non vuole fare niente”, “deve imparare a impegnarsi”, “sa solo dare fastidio”. Lei, sua mamma, lo sapeva che Andrea era appassionato di storia e gli piaceva giocare a calcio. Ma non avrebbe mai immaginato che avesse una forza di volontà e uno spirito di sacrifico così spiccato. Non gli aveva mai intimato di trovarsi un lavoro. È stato lui, quasi un anno e mezzo fa, a chiederle di poter iniziare a lavorare. “Dove?” subito gli aveva domandato Giovanna. “Da Vito, al panificio” gli aveva risposto deciso Andrea. Non si è mai lamentato dell’orario o del tipo di lavoro. Perché ad Andrea fare il pane piace, anche se sa bene che con la farina e l’acqua, con il lievito e il sale, deve impastare anche il suo sacrificio. È quello che rende buono il pane. È il sacrificio che fa dell’odore del pane il profumo più stimolante per l’uomo.
Non sapevo che Andrea, al quale diversi anni fa ho fatto la prima comunione, facesse il pane. Me lo ha detto Giovanna l’altra mattina, quando l’ho incontrata casualmente. E ho scoperto che anche io, quasi ogni giorno, ho sulla mia tavola il pane, e il sacrificio, di Andrea. Ho la premura della sua mamma, ho l’ammirazione dei suoi fratelli, ho la rinuncia che fa spesso alla vita notturna, ho l’amore con cui ha smentito i giudizi superficiali delle sue professoresse. In un pezzo di pane. Da quel giorno, ogni volta che vedo il pane, mi domando quale sia il nome di chi lo ha fatto la notte prima. Ci avete mai pensato? Vi siete mai chiesti chi ha impastato il pane che quotidianamente mangiamo? Sapete il nome di chi ha lasciato casa stanotte per farvi trovare il pane fresco e croccante oggi in tavola? Io l’ho scoperto casualmente pochi giorni fa.
E ho pensato a nostro Signore, il quale ha scelto il pane per farne il sacramento del suo corpo. Ho pensato che il pane preso da Gesù nella prima Messa della storia, a Gerusalemme nel cenacolo poche ore prima di essere arrestato, era stato impastato da qualcuno, forse da un ragazzo semplice come Andrea. E, non ho dubbi, che Gesù sapesse il suo nome, il nome di colui che, al pari di Maria, stava per dargli nuovamente la possibilità di avere un corpo, sacramentale questa volta. Gesù conosceva la sua storia e il suo sacrificio, impastato con la farina di quel pane. Come io ora conosco quella di Andrea. E ho capito perché Gesù ha scelto il pane. Impastato nella notte, come la passione che avrebbe vissuto di lì a poco, è il prodotto dell’amore e della rinuncia, è il frutto silenzioso di chi vive per nutrire gli altri. E cos’altro avrebbe potuto, più del pane, rendere realmente presente il Suo amore e il Suo sacrificio, la Sua umanità e la Sua divinità, il Suo gusto e la Sua bontà.
Non ho resistito e, ieri, sono passato dal retro di quel panificio dal quale ogni giorno il pane esce per arrivare sulla mia tavola. Ho buttato l’occhio, come si suol dire da noi, e ho visto Andrea. Lui mi ha subito riconosciuto, mi ha sorriso, e mi è venuto a salutare. Abbiamo parlato un po’, ricordato di quando serviva la Messa ogni Domenica, e detto del grande desiderio di poter tornare con più frequenza a quel bell’appuntamento. Gli manca! Poi è tornato nel candore, quasi paradisiaco, di quel luogo. Non riesco più a mangiare il pane senza pensare alle mani che lo hanno impastato. Non riesco più a fare la comunione durante la Messa senza pensare alle mani di Cristo che hanno preso quel pane e, dopo averlo benedetto, lo hanno consacrato e transustanziato nel Suo corpo.
Chissà se questa Domenica, al passaggio della processione del Corpus Domini, Andrea sarà sul bordo della strada. O se, per potersi alzare a quell’ora, come ogni giorno sarà andato presto a dormire. Non lo so. Ma so, per certo, che ci sarà il suo sacrificio e il suo amore per Gesù, dal quale ha imparato a fare del pane la sua vita e della sua vita un pezzo di pane.
don Giuseppe Germinario, direttore