Pochi giorni prima della chiusura del Concilio Vaticano II, 42 vescovi conciliari (poi diventati 500), tra cui il brasiliano dom Helder Camara e l’italiano Luigi Bettazzi, siglarono il “Patto delle catacombe” nelle catacombe di Santa Domitilla a Roma, come impegno personale a condurre una vita di povertà rinunciando a lussi, simboli di potere e privilegi e ad essere “una Chiesa serva e povera” come desiderava Giovanni XXIII. Il “Patto”, dimenticato nei decenni successivi, è uscito allo scoperto nel 2015, dopo 50 anni, ed è diventato vita vissuta con Papa Francesco e il programma del suo pontificato: “Per una Chiesa povera e per i poveri”.
Tra i successivi firmatari del “Patto” c’erano infatti l’arcivescovo di San Salvador Oscar Romero, ucciso dai militari e oggi beato per volontà di Papa Francesco, e il vescovo argentino Enrique Angelelli, morto in un incidente sospetto nel 1974, che Bergoglio conosceva quando era superiore dei gesuiti.
La rinuncia “all’apparenza e alla realtà della ricchezza”. 16 novembre 1965: i 42 vescovi di 15 Paesi di differenti continenti, tra i quali molti latinoamericani, celebrarono una eucarestia, presieduta dal vescovo belga Charles-Marie Himmer, nelle catacombe di Santa Domitilla, che ospita le tombe di 100 mila cristiani dei primi secoli di vita della Chiesa. La firma del “Patto” si ispirò all’impegno del gruppo “Chiesa dei poveri” fondato dal prete operaio Paul Gauthier e della religiosa carmelitana Marie Therèse Lescase. Nel testo, redatto dal vescovo Helder Camara, i vescovi si impegnavano a
“vivere come vive ordinariamente la nostra popolazione per quanto riguarda l’abitazione, l’alimentazione, i mezzi di locomozione e tutto il resto che da qui discende”. Una rinuncia, nello specifico, “agli abiti (stoffe ricche, colori sgargianti)”, ai simboli in oro e argento, alla proprietà “di beni immobili, né mobili, né conto in banca”.
Allo stesso tempo, i vescovi rifiutavano di essere chiamati “oralmente o per scritto, con nomi e titoli che significano grandezza e potere: Eminenza, Eccellenza, Monsignore…). Preferiamo essere chiamati con il nome evangelico di Padre”.
No a privilegi e all’amministrazione diretta delle finanze. “Nel nostro comportamento – scrivevano -, nelle nostre relazioni sociali, eviteremo quello che può sembrare un conferimento di privilegi, priorità, o anche di una qualsiasi preferenza, ai ricchi e ai potenti (ad esempio, banchetti offerti o accettati, nei servizi religiosi)”. “Eviteremo ugualmente – proseguivano – di incentivare o adulare la vanità di chicchessia, con l’occhio a ricompense o a sollecitare doni o per qualsiasi altra ragione”. Tutte le volte che sarà possibile, aggiungevano, “affideremo la gestione finanziaria e materiale nella nostra diocesi a una commissione di laici competenti e consapevoli del loro ruolo apostolico, al fine di essere, noi, meno amministratori e più pastori e apostoli”.
L’impegno per i poveri nel “Patto” era fondato principalmente sulle esigenze di giustizia e carità, operando per “trasformare le opere di beneficenza in opere sociali”. Tutto ciò chiedendo ai responsabili dei governi e dei servizi pubblici di attuare “leggi, strutture e istituzioni sociali necessarie alla giustizia, all’uguaglianza e allo sviluppo armonico e totale dell’uomo tutto in tutti gli uomini”. Resisi conto della situazione di povertà estrema di due terzi dell’umanità, i vescovi firmatari si impegnavano anche a “contribuire, nella misura dei nostri mezzi, a investimenti urgenti di episcopati di nazioni povere” e a chiedere agli organismi internazionali, “testimoniando il Vangelo come ha fatto Paolo VI all’Onu, l’adozione di strutture economiche e culturali che non fabbrichino più nazioni proletarie in un mondo sempre più ricco che però non permette alle masse povere di uscire dalla loro miseria”.
Da Mons. Bettazzi – don Luigi – e successivamente da don Tonino, riceviamo in eredità questo patto che non è solo per vescovi e cardinali. I valori ispiratori, profondamente evangelici, possono ben animare la vita di preti e laici del nostro tempo
Redazione Luce e Vita
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