Tra le pagine sublimi di don Tonino Bello, e oserei dire della nostra letteratura, c’è la Lettera a Giuseppe, che venne pubblicata sotto il titolo La carezza di Dio insieme ad altre missive, nelle quali lo slancio mistico e lirico si abbina a una grande concretezza, come era nel suo stile. È ancora possibile ascoltarla, in una provvidenziale registrazione, dalla viva voce dell’amato vescovo, e commuoversi insieme a lui in alcuni passaggi. Come quando don Tonino manda un accorato saluto a Maria: «Dille che anch’io le voglio bene. Da morire!».
Egli si immagina nelle vesti di un viandante che sosta nella bottega del falegname di Nazaret, intercettando scampoli della sua vita quotidiana, del suo lavoro, degli incontri con chi entra a farsi riparare qualche oggetto, a portare un pane o un saluto. Ogni frase, ogni virgola della lettera è degna non solo di commozione, ma di profonda meditazione. A distanza di oltre trent’anni, è un monito per ogni pastore di anime che voglia esercitare la paternità-maternità consentita dal dono totale della propria vita per sposare senza riserve la famiglia universale.
Missionario e testimone, alieno ai precetti e alle teorie, don Tonino non indugia a prescrivere che il vescovo sia un padre sul modello di san Giuseppe. Non impartisce lezioni sui doveri di custodire il gregge (neanche il Vangelo parlerà dell’intero branco, ma della singola pecora, tanto più amata quanto più smarrita). Lui, per cominciare, non si fa chiamare Eccellenza, ma don Tonino; e tale resta. E come tale non fa prediche dall’alto: ma si avvicina, apre un pudico spiraglio su un mistero familiare, il gesto di Giuseppe che sfiora reverente il grembo di Maria nel quale cresce piano il piccolo Gesù. È in quella mano «la prima benedizione sulla Chiesa nascente»: la carezza di Dio.
Da lì è scaturito il magistero bimillenario di quella stessa Chiesa, le cui citazioni potrebbero moltiplicarsi; soprattutto, la paternità del pastore è additata da santi e testimoni, spesso silenziosi, che con il loro esempio continuano a illuminare presbiteri e vescovi. La paternità si sperimenta, si matura, con tutto il carico di umanità condivisa, di sofferenza e di speranza ogni giorno riattinta dal Vangelo. È, in radice, quel falegname di Nazaret che ha dato il buon esempio a Gesù. Don Tonino lo osserva: Giuseppe non si limita ad applicare al legno gli utensili, ma subito passa e ripassa la mano sul pezzo lavorato, come per «compensare con un gesto di tenerezza il trauma della violenza», prima di «stendere il balsamo delle vernici», spianando con le dita «gli spigoli smussati dallo scalpello».
Non si raccomanderà mai abbastanza al presbitero, e soprattutto al vescovo, di dedicare tempo e cura a ogni anima, non solo quella che lo cerca, ma soprattutto quella di cui deve andare in cerca. Anche qui, si torna alla fonte: a contemplare quel Giuseppe mentre dimostra come «la materia prima di una seggiola o di un vomere non fosse tanto il legno od il ferro, ma il tempo». Di questo sono fatti i figli. Oggi corriamo, ma «è proprio questa anemia di tempo», commenta amaramente don Tonino, a rischiare talora di renderci sterili, e disumane le nostre opere. Il vescovo di Molfetta, battagliero e dolcissimo, dal canto suo è attento a ogni singola persona, la guarda negli occhi, parla a ciascuna nella sua lingua. È il ricordo dei tantissimi che hanno avuto la grazia di accostarlo.
Non mancano gli accenti, ugualmente accorati, sulla necessità, per tutti e in particolare per i pastori, di guardarsi dalla compromissione con il mondo del «getta e usa», dalle derive della “carità” sposata alle apparenze, da certe «operazioni filantropiche tenute a battesimo dalla televisione». Vi è, al proposito, un Vangelo perentorio, che abbiamo proclamato pochi giorni fa in questo tempo di Quaresima: «Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo» (Mt 23,8-10).
Oggi, uscito dal servizio attivo, ho la grazia di contemplare il dono della paternità vescovile, di cui ringrazio Dio, da un orizzonte più ampio e sereno, da un’ottica di misericordia, che offro e che chiedo, come tante volte ci ricorda e ci testimonia papa Francesco. La paternità resta per sempre, anche e soprattutto quando il “grembiule” da indossare non è più tanto della “faccenda”, quanto della preghiera e del silenzio. In questo modo continuo a lavare i piedi ai miei figli, tutti quelli delle diocesi che ho servito, quelli incontrati e quelli che ancora, spiritualmente, cerco.
Mi sfilano dinanzi tanti volti, e quelli che restano più impressi sono i volti segnati dal dolore. Tutto e tutti offro al Padre mio e Padre nostro, nel cui circuito di misericordia tutti siamo immersi e da cui sempre possiamo attingere e generare vita.
di S.Em. Card. Gualtiero Bassetti
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Comments are closed, but trackbacks and pingbacks are open.