È da otto mesi che sono chiuso in questa prigione. Non ho avuto difficoltà a sopportare questo spazio angusto e questo cibo troppo essenziale. Prima, forse, vivevo in maniera ancora più estrema visto che la spelonca nella quale dormivo non aveva nemmeno una porta e il cibo che mangiavo dovevo procurarmelo io tra quel poco che il deserto poteva offrire. Ora c’è anche chi mi sorveglia giorno e notte e, due volte al giorno, mi porta un pezzo di pane duro e un bicchiere con un po’ di posca. E questo mi è più che sufficiente.
Da oggi ho un privilegio in più: posso scrivere.
Non so come ringraziare Aulo, il mio carceriere, il quale stamattina mi ha portato un pezzo di cartapecora e un piccolo stilo di canna con un mucchietto di nerofumo. Ed ecco che subito ho cominciato ad usarli per scrivere queste pagine.
Purtroppo, non riesco a stare zitto, non riesco a trattenere la forza di una Parola che fuoriesce con forza da me, che mi ha scelto per essere gridata a tutti. Per questo sono nato, e per questo sono stato imprigionato. E l’unica vera sofferenza che vivo qui è il non poter più gridare a tutti che c’è bisogno di salvezza, che c’è bisogno di vita nuova. Non potendo più parlare, mi accontento di scrivere. Se anche nessuno dovesse mai leggere o ascoltare queste mie parole, io almeno non sarò venuto meno al mio dovere di dirle.
Se posso scrivere è anche grazie a mio padre il quale un giorno, quando avevo appena cinque anni, tornò a casa con un regalo per me. Era una tavoletta di cera con uno stilo in metallo. Lì potevo scrivere e cancellare e riscrivere tante volte. Quello divenne il mio gioco preferito e fu così che imparai a scrivere. Ricordo ancora che, quel giorno, si mise accanto a me e mi insegnò a incidere le lettere del mio nome. Poi mi raccontò cosa era successo otto giorni dopo la mia nascita, il giorno della mia circoncisione. È uso da noi che in quella occasione si dia il nome al bambino.
Egli era rimasto muto e, dato che mia madre rompendo la tradizione aveva detto di non impormi il nome di mio padre, interpellarono lui il quale, non potendo parlare, scrisse su una tavoletta il mio nome. Allora gli si sciolse la lingua e, senza che se ne accorgesse, cominciò a benedire il Dio dei nostri padri con un canto intenso. Per questo si era ripromesso che la prima cosa che mi avrebbe insegnato a scrivere era il mio nome. Perché in quel nome c’era la missione della sua vita, tutto il senso dei suoi lunghi giorni, l’attesa di un uomo e dell’umanità intera.
Da quando sono in prigione mi sono ricordato di mio padre, ho capito che cosa ha provato in quei nove mesi in cui restò muto, senza porter parlare e, ricordandomi quello che fece lui, ho chiesto di poter scrivere. Voglio scrivere il mio nome e tutto ciò che questo nome porta con sé, lo sconvolgimento e la misericordia, la denuncia e la consolazione, la povertà e la grandezza. Il mio nome è Yochanan – Giovanni e significa «Dio ha avuto grazia – Dio ha concesso un dono».
Molti hanno pensato che il dono, la grazia fossi io. Un dono fatto ai miei vecchi genitori quando oramai non avevano più speranze né possibilità di avere un figlio, una grazia concessa alla loro vecchiaia fedele e costante, un premio per la loro devozione e il loro servizio al Signore. Invece non era così.
La grazia non sono io, il dono non risiede nella mia nascita. Anzi, man mano che crescevo i vicini di casa dicevano a mia madre che più che una grazia ero da considerare una dis-grazia, un figlio ribelle, strano, affetto da qualche malattia mentale.
Due sono le cose che caratterizzano la mia vita: da un lato la stranezza, l’anticonformismo, la schiettezza, dall’altro la fedeltà, la totale obbedienza, l’assoluta dipendenza da una Grazia che non sono io, ma che io sono venuto ad annunciare.
Sono in prigione ma sono felice, non di essere in prigione, ma di essere un segno. Quando stamattina Aulo, il carceriere, mi ha portato gli strumenti per scrivere, mi ha detto «Giovanni ecco ciò che desideravi. In cambio però voglio da te un favore». «Quale favore può farti un uomo in carcere?» gli ho domandato. «Devi leggermi quello che scrivi – mi ha risposto – perché purtroppo io non so né leggere né scrivere, ma vedo in te qualcosa che non ho mai visto in nessuno». Mi sono commosso.
Aulo è un giovane imponente, avrà forse una ventina d’anni, e subito si è mostrato gentile con me. Mi ha raccontato la sua vita, della sua ragazza con la quale ha già avuto un bambino. Lo hanno chiamato Seio e tra qualche settimana compirà due anni. Fa il soldato custode dei detenuti in questa immensa fortezza, ma lui viene dalla Cilicia. Si è legato a me perché aveva sentito parlare di me già prima che fossi imprigionato qui. Aveva sentito della grande folla che veniva da me lungo il fiume Giordano ed era rimasto incuriosito dai racconti che giravano su di me, uomo strano ma capace di cambiare la vita a molti. Ma non aveva mai potuto lasciare questa fortezza per venire anche lui, di persona, a conoscermi.
La fortezza del Macheronte, nella quale siamo rinchiusi entrambi, si tova oltre la foce del Giordano, dall’altra parte del Mar Morto. Gli sarebbero bastate poche ore di cammino per arrivare al luogo dove io battezzavo. Ma non poteva lasciare la fortezza. Custode dei prigionieri, era ed è prigioniero lui stesso. Anche la sua famiglia può vederla solo una volta l’anno.
Quando sono venuto qui e ha scoperto chi fossi ha esclamato: «Dio mi ha concesso un dono!», si è sentito raggiunto da una grazia inaspettata. Anziché liberarlo da questo lavoro che lo rende prigioniero, sono stato imprigionato io con lui.
E se pure resta prigioniero qui, almeno non è più solo a coltivare l’attesa di una liberazione. Mi ha consolato tutto questo, mi ha consolato Aulo, mi ha fatto capire che qui non ci sto invano, che quel potere di annunciare una Grazia non l’ho perso. Che hanno imprigionato me, ma non la mia missione.
don Giuseppe Germinario, direttore