13 agosto 2023
Mt 14,22-33 (1Re 19,9a.11-13)
XIX domenica nell’Anno
di Luciano Manicardi
In quel tempo Gesù 22costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, finché non avesse congedato la folla. 23Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo.
24La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. 25Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. 26Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma!» e gridarono dalla paura. 27Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!». 28Pietro allora gli rispose: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». 29Ed egli disse: «Vieni!». Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. 30Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». 31E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?». 32Appena saliti sulla barca, il vento cessò. 33Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: «Davvero tu sei Figlio di Dio!».
Questa domenica presenta come prima lettura (1Re 19,9a.11-13a) una teofania, una manifestazione di Dio a Elia sul monte Horeb. A sua volta il vangelo (Mt 14,22-33) presenta una cristofania, una manifestazione della potenza divina che abita in Cristo ai suoi discepoli, in particolare a Pietro, sul lago di Galilea. La manifestazione della presenza divina – spesso evocata nell’AT da fenomeni naturali eclatanti che esprimono lo sconvolgimento che provoca l’intervento divino nel mondo (si pensi a Es 19,16.18 dove troviamo “tuoni e lampi, suono fortissimo di corno, fuoco, fumo come di fornace, tremore del monte) – appare nella prima lettura come evento discreto che chiede a Elia di farsi sensibile alla “voce di un silenzio sottile” (1Re 19,12: letteralmente) in una esperienza interiore e, nel vangelo, chiede a Pietro un incontro personalissimo nella fede. Occorre dunque prestare attenzione alla prima lettura per fornirne una chiave di lettura adeguata.
La traduzione ufficiale italiana della Bibbia rende 1Re 19,12 con “il sussurro di una brezza leggera”. Si tratta però di una traduzione non del testo ebraico ma di quello delle versioni greca dei LXX (phoné aúras leptês) e latina della Vulgata (sibilus aurae tenuis). Però il senso dell’espressione ebraica è inequivocabile: qol demamah daqqah significa voce di silenzio sottile. Già queste antiche versioni hanno censurato il silenzio e zittito la sua voce di fronte a ciò che veniva compreso come un insostenibile ossimoro: la voce del silenzio. Parlando di “brezza”, esse adottano un’espressione più conforme all’idea che ci si faceva di una teofania, che era sempre accompagnata da fenomeni atmosferici. In questo modo, l’ultimo elemento della serie dei quattro elementi che si presentano a Elia all’Horeb dopo il vento, il terremoto e il fuoco, è anch’esso un fenomeno atmosferico, per quanto più tenue rispetto agli altri. Questo che potrebbe apparire come un dettaglio poco rilevante è invece molto importante perché ci porta a una rilettura radicale di questo passo che ci mostra che la presenza di Dio è svelata non da fenomeni straordinari, esteriori ed eclatanti, ma dall’invisibile silenzio, dall’interiore silenzio, nella mitezza di un silenzio sottile. Il silenzio di Dio qui dunque non dice la sua assenza, ma la sua presenza inedita, la sua capacità di incontrare l’uomo in forme rinnovate. Nel nostro testo è infatti presente lo schema retorico profetico e sapienziale “tre cose, anzi quattro” che presenta tre realtà più una quarta, omogenea alle altre, dello stesso ordine, ma che è la più importante, quella decisiva. Questo schema si trova in Am 1-2 (“Per tre peccati di Giuda, anzi per quattro, non revocherò la condanna” e in Pr 30,15-33. Per esempio: “Tre cose non si saziano mai e quattro non dicono mai “basta!”: lo sheol, il ventre sterile, la terra che non si sazia mai di acqua e il fuoco che non dice mai: “basta!”” (Pro 30,15-16). Sulla base di questa osservazione, si deve rovesciare l’interpretazione tradizionale che ha fatto della quarta cosa un fenomeno atmosferico e rileggere le tre precedenti alla luce dell’ultima che è un fenomeno interiore. Vento, terremoto, fuoco e voce (che, tra l’altro, sono simboli che nel racconto della Pentecoste indicano lo Spirito: At 2,1-6) rinviano a dimensioni interiori dell’uomo quali, rispettivamente, la volontà, l’emotività e l’affettività, che trovano la loro sintesi nel silenzio interiore di colui che sta davanti a Dio interamente, totalmente, unificato nelle sue dimensioni profonde. Questo schema, da ravvisarsi in forma narrativa dietro al testo di 1Re 19,11-13, implica che alle prime tre cose ne segua una quarta, sempre dello stesso ordine, ma decisiva, la più importante. Dunque, le prime tre cose (vento, terremoto, fuoco) vanno interpretate alla luce dell’ultima, che è un fenomeno interiore, non atmosferico. Si tratta pertanto di cogliere la dimensione simbolica di vento, terremoto, fuoco. Alla luce di questo schema anche l’espressione “il Signore non era nel vento, … nel fuoco, … nel terremoto”, non significa una assoluta assenza, ma che non è in quelle cose come è nell’ultima.
Il vento impetuoso: rûah significa “vento”, “alito”, ma anche “spirito”. Può essere una realtà atmosferica, ma anche antropologica o teologica. Di certo, un vento che spacchi le rocce e spezzi le montagne non esiste in natura: l’autore intende orientare verso un’interpretazione simbolica di rûah. Rûah è forza, potenza, ma una potenza che può schiacciare e travolgere chi la detiene. Maimonide interpreta rûah come forza di volontà. La forza di volontà è un elemento della personalità del profeta Elia, una forza che può però rivelarsi eccessiva, troppo impetuosa e aggressiva. Lo Spirito investe anche la dimensione volitiva della persona, ma l’esperienza spirituale non è riducibile alla forza della volontà. Il religioso lasciato in balia della volontà umana diventa distruttivo.
Il terremoto: l’ebraico parla di racaš, “tremore”, “tremito”, che può designare il tremare della terra, ma anche un fenomeno psicologico ed emotivo come “trepidazione”, “tremore” (Ez 12,18), e indica una reazione emotiva dell’uomo. Se si vuole tradurre con terremoto si tratta di un terremoto interiore, di uno sconvolgimento intimo. Siamo rinviati alla sfera emotiva, che certamente accompagna l’esperienza spirituale, ma non la può esaurire. Il religioso lasciato in balia dell’emotivo diviene anch’esso distruttivo.
Il fuoco: spesso simbolo del farsi presente di Dio (Es 3,2-4), il fuoco rinvia anche alla dimensione passionale, affettiva, erotica: l’eros è “fiamma di Yah”, dice il Cantico dei Cantici (8,6). E l’esperienza spirituale traversa l’affettività e la sfera erotica dell’uomo, ma l’affettività e l’eros non esauriscono l’esperienza dello Spirito. E il religioso, preda della dimensione affettiva ed erotica, diviene ancora distruttivo.
Con la voce, qol, e la voce del silenzio, siamo di fronte al simbolo di una presenza ineffabile e interiore. L’esperienza spirituale si fa apofatica. La voce è silenziosa: non eccesso di zelo, non sussulto emotivo, non passione incontrollata. Applichiamolo alle espressioni religiose odierne e all’uso del divino oggi: non fondamentalismo violento e intollerante, non zelo aggressivo e assassino, non integrismo settario, non passione acritica e irrazionale, non fanatismo omicida, ma l’ascolto e il dialogo che sprigionano dall’esperienza del Dio rivelato nella voce del silenzio tenue. Voce che chiede finezza di ascolto spirituale per essere accolta. L’ascolto di sé conduce alla conoscenza di sé, ma anche e soprattutto all’incontro con il Dio che si manifesta anche nel silenzio.
Il testo evangelico si apre presentando un Gesù che desidera solitudine, che ha bisogno di ritiro, di distanza dai suoi discepoli e dalle folle. Egli allontana i discepoli da sé, li costringe a salire sulla barca e a precederlo dall’altra parte del lago e poi licenzia le folle (Mt 14,22). E sta in disparte, da solo, senza distrazioni, senza presenze altre, solo lui con se stesso, lui con il suo Dio: Solus erat ibi (Mt 14,23). Solo spazio della sua preghiera è la solitudine, solo tempo della sua preghiera è il silenzio, solo giudice della sua verità è la sua coscienza, il luogo intimo e a tutti inaccessibile che fonda la sua stabilità e nutre la sua forza, il luogo del suo dialogo con il Padre che orienta anche il suo muoversi nel mondo tra gli uomini, il suo scegliere, il suo parlare, il suo tacere, il suo rimproverare, il suo consolare, il suo curare.
Ed ecco che sul finire della notte Gesù si fa presente ai suoi che stanno tribolando in una faticosa e contrastata traversata delle acque agitate dal vento contrario. E vedendolo camminare sulle acque essi sono sconvolti e si fanno prendere dalla paura. Lo stesso Pietro, che in un primo momento fa fiducia Gesù che gli chiede di andare verso di lui camminando sulle acque, quando vede il vento e non più il Signore, diviene preda della paura e inizia ad affondare. Chiediamoci: Perché quella paura? Perché la nostra paura nel nostro cammino di fede ed ecclesiale anch’esso scosso da turbolenze e contrarietà? Forse perché non si ritiene che le contrarietà (il vento contrario) e le sofferenze comunitarie (la barca tormentata dalle onde) debbano far parte del cammino di vita a cui il Signore ci ha chiamati. Forse per scoraggiamento o per ribellione verso colui che ci ha affascinato ma da cui poi ci siamo sentiti abbandonati, lasciati in balìa delle onde. Forse perché non pensavamo che la pur difficile sequela fosse addirittura impossibile come camminare sulle acque del mare. Forse perché pensavamo che in noi stessi c’erano le risorse per andare fino in fondo senza dover andare anche a fondo. Forse perché non avevamo preso sul serio le parole di Gesù “dove sono io voglio che sia anche il mio servo” e “chi vuol salvare la propria vita la perderà”. Forse perché, come i discepoli sulla barca avevamo preso l’abitudine a parlare di Gesù tralasciando di parlare a lui, di pregarlo, come i discepoli che di lui dicono “È un fantasma” mentre a lui diranno nella preghiera comune: “Tu sei veramente il Figlio di Dio”.
(www.monasterodibose.it)
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